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Il lavoro di congedo di Jacopo Godani dalla direzione della Dresden Frankfurt Dance Company ha aperto il programma del festival romano Fuori Programma. L’inedita cornice dell’arena dell’India ha sollecitato un’altrettanto esclusivo formato coreografico.

La fine è spesso solo un nuovo inizio ancora incapace di farsi riconoscere. È stata infatti una serata carica di futuro quella che ha congedato Jacopo Godani e la compagnia di cui è stato direttore artistico, e per la quale ha creato coreografie per otto straordinari anni, la Dresden Frankfurt Dance Company. Symptoms of Development ha aperto l’VIII edizione del festival Fuori Programma nell’outdoor del Teatro India a Roma.

L’arena che ha accolto il pubblico consegnato a tutti e quattro i lati del palco per gran tempo alla luce del giorno, per forza consapevoli e solidali a tanto suggello, sembra il luogo ideale per accogliere tanta invenzione. Aperto, naturale, archeologico.

Lo spazio a cui Godani si adatta qui perfettamente, è quello dello spettatore prima che del coreografo: la performance si fa evento. E infatti tutto funziona da tutti i punti di visione. Ma è soprattutto il mood di questi dodici straordinari interpreti che colpisce (e aggredisce) tutto il tempo: un umore per niente dimesso o scontento o deluso ma invece festivo, complice e anche beffardo, negli sguardi di intesa, negli ingressi calcolatissimi, negli abbarbicati duetti o nei determinatissimi intervallati gruppi, e più in generale nella partecipazione a un congedo che mai protesta, ma che invece pretende (foss’anche l’ultima) attenzione.

I volti sono sempre espressivi, sempre in cerca di un gancio con l’altro, mai annullati né sottratti alle priorità del movimento; la richiesta di linee allungate e contorsioni impervie dei corpi sempre partecipa della dimensione corale che predomina il continuo alternarsi sul palco. Una coralità in cui ogni singolarità è preservata attraverso le forze della presenza, e che si completa nel tenersi ognun* sempre in gioco addirittura assistendo chi è di scena da una tenda nera di ricovero, montata in un angolo dell’arena, dietro al pubblico. Non ci potrebbe essere miglior conferma dell’etica dello stare-insieme di questo ensemble, dunque delle capacità di Godani di alimentare un gruppo.

Il lavoro è presentato come «una sorta di laboratorio scientifico» che indaga il movimento e i saperi del corpo, e sappiamo che è vero: è la storia intera di Jacopo Godani, prima come mirabile ballerino (tutti sanno per chi), poi come inesausto creatore (tutti sanno come). Ma in realtà questa alternanza di numeri che celebrano (assemblandola) una tale ricchezza compositiva, produce il canone di una ben precisa identità artistica. E sarebbe un vero peccato non riconoscere in essa tutta la forza del futuro che ancora contiene. Inutile dire che dovremmo essere noi capaci di garantire ora, in Italia, un presente a tanta speranza.

I prolungati applausi al termine della performance sono risuonati anche come una strategia per fermare, non lasciare andare tanta ricchezza: sono essi già i primi sviluppi di questi sintomi in forme di corpi. L’applauso è il senso più vero di ogni congedo: quello di riportare nell’agenda della vita l’esperienza della liberazione.

Stefano Tomassini